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Gian Maria Tosatti – Sette Stagioni dello Spirito 5_I fondamenti della luce
21 Settembre 2015-10:00/15 Novembre 2015-16:00
21 settembre – 15 novembre 2015
OPENING 21 SETTEMBRE ORE 10:00
Ex Convento di Santa Maria della Fede
Via San Giovanni Maggiore Pignatelli, Napoli
A cura di Eugenio Viola
In quest’ultimo lavoro, site-specific come i precedenti, Tosatti continua il suo metaforico attraversamento del Purgatorio. Affrontata la spiaggia, il luogo probabilmente più desolante dell’intera Comedìa dantesca, nella quarta tappa, (inaugurata lo scorso 10 settembre ed ancora visitabile fino al 15 novembre), l’artista si rapporta con la montagna del Purgatorio. Un luogo che Dante descrive altissimo, erto su un’isola al centro dell’emisfero australe, invaso dalle acque, agli antipodi di Gerusalemme, posta invece al centro dell’emisfero boreale. Di qui lo slittamento dalla linearità del tempo, scandita da 4_Ritorno a casa, ad un’indagine incentrata sul concetto di verticalità, che si identifica nel movimento stesso dell’ascensione come circostanza morale.Questo lavoro è ispirato da una lettera d’amore scritta da una ragazza vissuta all’inizio del secolo scorso, Paolina T., che nel 1917, all’età di vent’anni, rea di non essere una nobildonna ma una semplice “povera” – così è definita nella cartella di ricovero – non ebbe il privilegio di un convento e fu internata nel manicomio di Sant’Antonio Abate, a Teramo, con la diagnosi di “immoralità costituzionale”.5_I fondamenti della luce è un’opera sullo splendore insopprimibile che alberga nel fondo dell’uomo e che è il motore primo della sua esistenza anche nei momenti più oscuri. L’opera, come la precedente, è un’elegia sospesa fra spirituale e politico, un elemento che diviene preponderante, esplicito, quasi provocatorio. Non esiste, infatti, il privato senza il collettivo e la salvezza – concetto introdotto in 4_Ritorno a casa – non può che essere un riscatto collettivo, sociale, forse, di classe. Paolina T., poiché povera, è costretta dalla società a scrivere la sua lettera d’amore nell’inferno di una realtà manicomiale dell’inizio del ‘900 che non è poi così diversa dal mondo che abitiamo oggi: un grande recinto per le menti, da cui si può evadere solo diventando più leggeri, perdendo il peso della materia che non riesce ad attraversare le sbarre. Di qui il collegamento con la sede prescelta, l’ex reclusorio di Santa Maria della Fede, in fondo una specie di carcere per donne libere, la cui struttura diviene metafora di un percorso ascensionale che si confronta con un altro purgatorio napoletano come quello narrato da Anna Maria Ortese ne Il mare non bagna Napoli, nel capitolo dedicato a La città involontaria. La chiesa di Santa Maria della Fede sorge nel XVII secolo nei pressi del borgo Sant’Antonio Abate. Nel 1645 la chiesa è ceduta agli Agostiniani riformati di Santa Maria del Colorito di Morano che promuovono un rimaneggiamento del tempio e la costruzione di un monastero. Successivamente, il complesso è destinato, per volere di Maria Amalia di Sassonia, moglie di Carlo III di Borbone, ad ospitare un ritiro di sole donne. In seguito diviene un ospedale per le prostitute. Nel dicembre 2014, dopo molti anni di abbandono l’edificio è stato occupato da un comitato di quartiere che riunisce in sé molte anime dell’attivismo napoletano, al fine di sollecitare il comune a riconsegnare alla comunità uno spazio storico – che ha ospitato anche la tipografia di Benedetto Croce – togliendolo al degrado e ai traffici illeciti per riportarlo ad una funzione di carattere sociale e culturale. L’artista ha dunque fortemente voluto portare il progetto in questo luogo come atto di sostegno ad un processo di democrazia diretta portato avanti dai cittadini napoletani per migliorare le condizioni di un quartiere ricco di bellezze, ma anche di grandi complessità.