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Fabio Donato. Il viandante
11 Marzo 1998-19:30/10 Maggio 1998-19:30
11 marzo – 10 maggio 1998
OPENING 11 MARZO ORE 19:30
Studio Morra
Via Calabritto 20, Napoli
I Paradossi della Fotografia di Angelo Trimarco
E’ stato Roland Barthes, più di ogni altro, ad avere disseminato, negli ultimi decenni, il territorio della fotografia di paradossi. Ha cominciato nel ’61, sostenendo che lo “statuto particolare dell’immagine fotografica” è un messaggio senza codice, giacché, certo, “l’immagine non è reale”, ma ne “è quantomeno l‘analogon perfetto, ed è precisamente questa perfezione analogica che, per senso comune, definisce la fotografia”. Ha concluso, nell’80, appena prima di morire, affermando che la fotografia è una “noesi senza noema, un atto di pensiero senza pensiero, un intendimento senza obbiettivo finale”.
La fotografia, messaggio senza codice (ma influenzato nella sua lettura, da numerosi codici), noesi senza noema, è, nella prospettiva barthesiana, custode di diversi privilegi. Paradosso supremo, è, fra tutti gli altri linguaggi, l’unico capace di dirci ciò che è stato e non ciò che non è più. Il passato è, dunque, il luogo proprio della fotografia: il tempo come aoristo, più precisamente. Ciò che è stato è la certezza e la verità della fotografia. Solo della fotografia. Così, davanti alla fotografia cede il ricordo. Importa ciò che è stato (“l’essenza della fotografia è di ratificare ciò che essa ritrae”). E ritrae il tempo nella sua immobilità, nel suo essere, appunto, ciò che è stato. La fotografia è, dunque, imparentata con la morte: “La fotografia potrebbe forse corrispondere all’irruzione, nella nostra società moderna, di una Morte simbolica, al di fuori della religione, al di fuori del rituale: una specie di repentino tuffo nella morte letterale”.
La fotografia, messaggio senza codice e noesi senza noema, è il “Particolare assoluto”, la “contingenza suprema”, il “reale nella sua espressione infaticabile”. Testimonia della “caparbietà del referente di essere sempre lì” (“Si direbbe che la fotografia porti sempre il suo referente con sé, tutti e due contrassegnati dalla medesima immobilità amorosa e funebre”). Una trinità, dunque, ci inquieta: fotografia, amore, lutto, senza che sia possibile elaborazione del lutto.
Francamente, non so dire quanto la fotografia, che è comunque un linguaggio, possa esibire il “Particolare assoluto” e la “Contingenza suprema”, la Referenza nella sua “espressione infaticabile”. Non lo credo, come credo al contrario, che qualsiasi altro linguaggio – la poesia, la musica, la pittura – sia l’Universale assoluto o la suprema Eternità.
Walter Benjamin, in un luogo assai celebrato, riferendosi alla natura che “parla alla macchina fotografica”, offre l’indicazione preziosa di uno “spazio elaborato inconsciamente”: “soltanto attraverso la fotografia”, avverte, “si scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo”. Così, attraverso la fotografia è possibile cogliere il frammento di tempo in cui “si allunga il passo“, nel quale in una serie ordinata e prevedibile di fatti e di eventi qualcosa o qualcuno s’inceppa o accelera. L’inconscio ottico indica, appunto, la discontinuità del passo, l’incrinatura pur minima, che sfiora la superficie rilucente delle cose, la pulsione che fa deviare la natura e inquieta il reale.
L’inconscio ottico segna quella soglia – il passaggio – dal reale all’artificiale, dalla natura al linguaggio, alla fotografia come costruzione di linguaggio. Un passo, ovviamente, discontinuo, scandito da variazioni temporali differenti. Non il tempo immobile, assoluto, ma temporalità diverse segnano l’esperienza della fotografia, questo singolare linguaggio senza codice. Del resto, come altri linguaggi non verbali. Senza codici o, meglio, con codici deboli.
Il lavoro di Fabio Donato è uno spazio esemplare per cogliere il momento in cui si allunga il passo. La sua è una ricerca di soglia sulla soglia: fra il dentro e il fuori, il prima e poi, la vita e la morte. La porta, la finestra, lo specchio sono, fra gli altri, i transiti linguistici tra i quali affiora, il ciò che è stato, il lutto, e la sua elaborazione. Giacché l’opera, qualsiasi opera, è sempre perdita e lutto – il ciò che è stato, appunto – e la sua elaborazione in presenza flagrante.
La riflessione su quella “linea di demarcazione”, come la chiama Donato – una linea, del resto, mobile e inafferrabile – che segna il dentro e il fuori, la soglia fra ciò che è stato e ciò che è, tra l’aoristo e il presente, avviene, anzitutto, per via dei rapporti che sul rettangolo di carta intrattengono il bianco e il nero. E per le differenti gradienze percettive che le loro relazioni suggeriscono. Così, il lavoro di confine tra vita e morte, prima e dopo non assume mai, in questi lavori, una curvatura simbolica e allusiva. La fotografia di Fabio Donato, d’altra parte, nella sua asciuttezza e nel suo rigore, è sempre stata periplo intorno alle figure di un esercizio, più di ogni altro forse, difficile e enigmatico.
Le foto di Fabio Donato sono superfici scandite da ritmi regolari. Gli oggetti (una lampada, una sedia, una porta, un balcone, un frammento di paesaggio, uno specchio) non valgono per sé, per la loro invadenza percettiva, ma per il posto che occupano nello spazio, per le trame che riescono a intessere. La fotografia di Donato è costruzione trasparente di linguaggio: nulla è consegnato all’improvvisazione o all’estro. Ogni cosa, invece, è parte di un disegno che il nero e il bianco, i bagliori del bianco, talvolta improvvisi come apparizioni, o il nero che si fa grigio o ancora più nero, aiutano a ritagliare.
La ricerca di Donato ha radici lontane, negli anni settanta. Nel suo lavoro di fotografo di arte e di teatro, nel suo reportage sull’India, in questa ricerca che egli, non senza ragione, intitolava “Ambiguità”. In quella tensione, direi, a lavorare il linguaggio della fotografia sperimentandone margini e possibilità. Mi riferisco, come ho fatto qualche volta, a quella sua scelta di intervenire, rifotografandola, sulla fotografia di Helmuth Newton per provare quanto decisiva sia la critica della somiglianza o alla rappresentazione.
La fotografia, per Fabio Donato, è, appunto questo passo che provoca discontinuità tra le cose e le abitudini percettive, quella leggera linea che segna il tempo della vita e della morte. La fotografia ha a che fare con il tempo, certo. Ma non solamente con ciò che è stato, con l’aoristo, con la Referenza. Ma sempre, anche, per quel passo che si allunga, con un altro tempo. La fotografia è, così, in bilico, fra il tempo morto di ciò che è stato e il tempo della vita dell’opera. Appunto, con ciò che è, con l’elaborazione del tutto.
Nacque la fotografia e gli uomini-narciso divennero immortali.
La loro vanità fu finalmente soddisfatta.
Che diabolica invenzione è questa il cui prodotto è
paradossalmente sempre a cavallo tra il passato ed il futuro,
senza mai essere nel presente?
E che vive questo fotografo nel mentre ferma la vita
trasformandola in morte?
Quale spessore avrà quella linea di demarcazione tra vita e morte,
prima e dopo, dentro e fuori, falso e vero,
soggetto ed oggetto, conosciuto ed ignoto…
Ma forse gli uomini fotografi producono immagini,
solo per esorcizzare questa morte che forse non c’è.
Fabio Donato