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Allan Kaprow – 7 Environments
3 Ottobre 1991-17:00/20 Novembre 1991-17:00
3 ottobre – 20 novembre 1991
OPENING 3 OTTOBRE
Fondazione Mudima
Via Tadino 26, Milano
La mostra alla Fondazione Mudima (3 Ottobre 1991) – Milano, consiste nella “re-invenzione” di sette Environments eseguiti tra il 1957 e il 1964. Dico re-invenzioni e non ricostruzioni poiché i sette lavori esposti mostrano notevoli differenze rispetto a quelle originali; e questo intenzionalmente. Come scrivo nelle note ad uno di essi, gli Environments erano concepiti infatti come opere in trasformazione. Questa iniziale decisione si contrapponeva all’opinione, generale ed accettata, che l’arte dovrebbe aspirare ad una condizione definitiva, non effimera.
Inoltre, fu subito chiaro che l’ Environment includeva l’idea di sue possibili trasformazioni durante la presentazione. I comuni spettatori diventavano partecipanti che eseguono cambiamenti. In tal modo quindi il concetto tradizionale dell’artista come individuo di talento esclusivo (il genio) veniva sospeso, a favore di una collettività sperimentale (il gruppo sociale come artista). L’arte era come il tempo atmosferico.
Ma l’ Environment non doveva soltanto integrare partecipanti ed opera; esso doveva fondersi quanto più possibile con gli spezi esistenti e i contesti sociali effettivi in cui era situato. Verso il 1963 esso uscì dalla cornice del contesto artistico (studi, gallerie, musei) per fondersi con la natura e con la vita urbana. Ma a questo punto si dissolse negli Happenings, che si svolgevano nello stesso periodo, e cessò di esistere come tale: nessuna fissità, nessuno spettatore, nessuna mostra, nessun critico, nessun oggetto, nessun riferimento alla storia dell’arte. Fu qui che il mio cammino si divise da quello di gran parte dei miei colleghi dell’epoca. Essi desideravano mantenere legami più ravvicinati con il mondo artistico e le sue ricche tradizioni. Io al contrario ricercavo la massima ambiguità dell’identità (“che cos’è?”).
Dal mio punto di vista, l’ARTE, come idea e come pratica, poteva essere messa vantaggiosamente da parte (non per questo doveva necessariamente essere rifiutata). In questo secolo di massiccia (dis)informazione su qualsiasi cosa, arti comprese, sovraccarico e stordimento sono inevitabili. Per paradosso, forse, l’indifferenza per l’arte potrebbe agevolare la comprensione dei suoi attuali valori, se ne esistono; se apparentemente non ve ne sono, ebbene, così sia.
Questa presa di distanza, potrebbe essere la forma non ancora emersa del potenziale artistico di fine secolo. In anni successivi, ho trovato il compito imposto dalla vita quotidiana cosciente ben più interessante della produzione di arte convenzionalmente identificabile; ma questa è un’altra storia. Questo è il resoconto dell’emergere di una teoria negli anni Cinquanta.
Per chiarire gli obiettivi filosofici dell’ Environment, e per superare in tal modo le sue eccentricità di superficie ( che possono essere piacevoli, ma anche ingannevoli), possiamo paragonarlo con la popolare moda attuale dell’installazione.
Le due cose vengono spesso confuse, così come lo sono l’Happening e la Performance, per quanto essi siano quasi antitetici. Vorrei proporre una definizione operativa; l’installazione sta all’ Environment come la Performance all’Happening: forme ritardatarie di prototipi radicali. L’installazione scenografica, mentre la Performance è teatrale. Il teatro, e la nozione ad esso subordinata di scenografia, sono all’interno delle arti delle categorie generiche, che si sono evolute in un lungo processo del fare, non il risultato visivo. L’Happening non era affatto teatro, poiché si sbarazzava della cornice teatrale (il palcoscenico e i suoi equivalenti), del pubblico, del copione, dell’attore, e del ruolo (la finzione di essere ciò che non si è). L’Happening aveva a che fare, invece, con la precisa questione: che cosa e chi si è quando si svolgono semplici azioni nella vita quotidiana, favorendo così la consapevolezza nei gesti di routine, come l’allacciarsi una scarpa…Gesti che, se vi facciamo caso, non si svolgono mai allo stesso modo. Un giorno, mentre stiamo allacciando la scarpa sinistra, squilla il telefono, un altro fa molto caldo e lasciamo le tutte e due le scarpe slacciate. Alla base, vi era l’impulso a fare attenzione a ciò che ignoriamo, piuttosto che ai grandi temi, come l’arte, la guerra, l’ideologia, la povertà, il pregiudizio, l’epidemia, la salvezza, ecc. L’idea era che le piccole cose della vita comune fossero necessarie per equilibrare le “astrazioni” a cui i “grandi problemi” pervengono nel momento in cui prendono un nome.
Che questo sia vero o no, l’effetto sulle società “grandi” o “piccole” temi in arte non è ancora misurabile, mentre è molto facile misurare gli effetti di uno sciopero degli impiegati postali sul costo dei servizi urbani. Ciò che è osservabile nel paragone tra Environments ed Installazioni è che, come dice il nome, l’installazione pone “oggetti distinti, assemblaggi, video ecc.” Lo spazio neutrale del luogo espositivo, in modo simile al vetrinista che installa un manichino e il materiale scenico nella vetrina di un grande magazzino. I dispositivi formali sono gli stessi; un po’ diversi sono soltanto il tema, il contesto, le aspettative e le interpretazioni.
La struttura dell’installazione, quindi, è quella familiare della disposizione gerarchica di parti in un intero, in cui, oggetti più o meno messi in risalto vengono posti e illuminati per un’attenzione ottimale contro una parete o sul pavimento dello spazio espositivo. In altre parole, arte tradizionale! Il caso, la variazione, la temporaneità, la partecipazione ai processi, i cambi di scena, e soprattutto il senso di uno spazio ambientale, che circonda e impegna il visitatore – tutto ciò con un’istallazione è secondario e inappropriato.
Il visitatore è semplicemente il comune osservatore, che guarda e pensa.
Ciò che rende interessanti alcune installazioni è il loro tema: personale, sociopolitico, rituale, ecc. Ma il problema con cui si scontra qualsiasi arte in cui il tema è dominante (gli artisti astratti avevano fatto chiarezza a proposito) è che se le sue forme, strutture, disposizioni ed uso non sono esse stesse qualità tematiche, consustanziali al tema, l’opera d’arte non rimarrà nient’altro che l’illustrazione di un pensiero. Essa non potrà essere una visione esperienziale.
L’esperienza, credo, è qualcosa di fisico, non intellettuale. Un’esperienza è pensiero che ha “preso corpo” a livello muscolare, neuronale, forse cellulare. E questo è ciò che gli Environments, almeno dal punto di vista del mio successivo impegno di vivere assiduamente senza produrre “opere d’arte” per definizione.
Ma tutto ciò accadeva quasi trent’anni fa! Quando le persone arrivavano, allora, erano poste a confronto con la crudezza dello spazio, con materiali provvisori e caduchi tanto prossimi alla spazzatura! E più ancora, vi si trovavano letteralmente dentro. Esse dovevano fare qualcosa, la distanza critica era impossibile, ed erano così o completamente disorientate, o spinte ad agire con la felicità dell’infanzia.
Tanta sorpresa ed innocenza oggi probabilmente sono impossibili. Al loro posto è subentrato uno scetticismo pervasivo (vedi le note ad APPLE SHRINE). Ugualmente, siamo posti comunque davanti alle stesse domande fondamentali. Cosa significa essere artista? Cos’è l’arte? Cosa fa? A chi è diretta? Una risposta semplice e priva di retorica è molto, molto difficile. Ognuno di noi farà del suo meglio. Per ciò che mi riguarda, sono stato più o meno esplicito nel resoconto precedente.
Essere artista, oggi, vuol dire conoscersi. Conoscersi è dimenticare sé stessi, l’immagine che si ha del proprio “sé”. Dimenticare l’arte (il proprio “sé”) è avere un barlume di realismo. Ed avere quel barlume lo spazio tra se stessi e la totalità dei fenomeni. *
Così l’arte forse è l’imitazione della vita come viene percepita, ma con l’aggiunta della consapevolezza. Copiare la vita potrebbe semplicemente voler dire vivere con attenzione. L’arte di questo tipo, quindi, promuove la compassione (ma non la garantisce). Essa è per qualunque essere umano, ma nella pratica odierna si offre a coloro che la ricercano: l’artista e pochi amici. E forse è giusto così.
* Parafrasando così Dogan Zenji, maestro Zen giapponese del quattordicesimo secolo.
Allan Kaprow